A proposito d'Arte...

Lo sguardo dell’Antropologo verso le forme d’arte…

Trovare modo di esprimere le proprie sensazioni di fronte a una nuova rivista che vuole valorizzare il segno artistico è’ sempre operazione ardua e discrezionale! Eppure osservare la creatività’ e laboriosità’ umana attraverso il segno impresso dalla mano e il riflesso inconscio del cervello ispira da sempre quei coraggiosi che vogliono offrire attraverso gli esempi d’arte il meglio che l’Umanitas oggi può’ dare! Proprio in questo giorno che coincide con la scomparsa di un artista palermitano che ha lasciato una traccia di colore intangibile, Maurilio Catalano , vogliamo rendere omaggio a quella “ immaginazione al potere ” che dagli slogan sessantottini è’ passata agli atelier degli artisti maturi… E come non astrarre la lezione dell’antropologo Leroy Gohuran che nei segni primitivi di 20 mila anni fa tra gli aborigeni australiani scorgeva la stilizzazione artistica portata a perfezione fino ai nostri giorni…e come non vedere nei disegni infantili studiati da Bruno Munari o Antonino Buttitta le tracce eterne dell'intelletto che guarda in positivo. Certo tutto il corpo partecipa all’astrazione artistica( pittura, scultura, grafica, poesia, musica, teatro, cinema) e ben oltre le Sette muse …le forme infinite di modificare la realtà’ ai propri “ canoni ” estetici per rendere migliore l’esistenza di tutti! E mi sovviene adesso pensare alla Street Art che invade i muri dei piccoli centri e delle periferie, o alla Pop art come al classicismo che regala ai visitatori sensazioni d’armonia a cui il nostro essere umani ......non può’ rinunciare! In questa città’ hanno chiamato “ Vie dei Tesori ” la riscoperta di luoghi nascosti persino alla memoria, l’estremo tentativo probabilmente di farci riappropriare della bellezza “ sotto casa ”, di quella bellezza di cui non ci accorgiamo nella vita frammentaria e di corsa che percorriamo ogni giorno...ma c'e' ancora molto da fare soprattutto nel denunciare gli scempi del patrimonio, la sporcizia che nasconde i decori, i gesti e i suoni della bellezza nascosti dal frastuono delle auto! E allora ben venga una nuova esperienza di sintesi tra parola e immagini, ben venga l’armonia laica, senza pregiudizi, di accogliere tutte le forme espressive d’arte che ci conducano all’unita’ parmenidea del Tutto!

Claudio Paterna
Antropologo del Territorio. Saggista, giornalista pubblicista e Divulgatore dei Beni Culturali in Sicilia. Componente Commissione Reis (Registro Eredità’ Immateriali siciliane).

Arte e fotografia

Perché chiedere proprio a me una definizione di Arte? La risposta, se c’è, è talmente al di sopra delle mie possibilità… Eppure trovo che sia una buona idea domandarlo a dei fotografi. Perché la fotografia è proprio una cerniera tra Arte e Comunicazione. Unisce e separa questi mondi. E se è vero che ogni attività artistica ha dentro un intento comunicativo diretto o indiretto, la fotografia, in origine figlia della modernità e del positivismo, della rivoluzione scientifica e dell’industrializzazione, ha da sempre vissuto questo rapporto in un modo unico che ha finito con il costituire un modello per ciò che oggi chiamiamo “Arte contemporanea”. Prima dell’arrivo della fotografia ciò che l’Arte comunicava era destinato a rimanere legato alla dimensione soggettiva o, al più, intersoggettiva, di chi crea qualcosa e di chi ne fruisce. Una piccola e selezionata parte della popolazione in entrambi i casi. Gli oggetti d’Arte, ovvero le opere, erano realizzate attingendo ad un immaginario individuale e solo indirettamente collettivo. La mediazione degli “esperti” – critici e storici dell’arte –  ci ha talvolta aiutato ad entrare nella visione degli artisti e del loro contesto storico-culturale. Sia gli artisti sia le opere d’arte erano comunque considerati un mondo a parte. L’accesso a questo mondo richiedeva doti straordinarie. La narrazione legata agli artisti e all’Arte aveva tra i suoi ingredienti quasi sempre qualcosa di eroico o di tragico e l’Arte era vista come catarsi di una sotterranea o emersa sofferenza. Talvolta si trattava proprio di schizzi di follia che il mondo dei ben pensanti descriveva come una spiacevole tara. L’artista, insomma, era condannato ad una sensibilità speciale, estraneo al proprio tempo… Dal genio rinascimentale al Vate romantico, fino al poeta maledetto ed anche oltre. La fotografia invece, ben prima di Duchamp e del surrealismo, ha preso cose e persone comuni, realtà già fatte (ready made) e ce le ha mostrate in una estrazione e sotto una luce che ne modificavano il senso ordinario. La fotografia, ben prima della Pop Art, ha preso il quotidiano e il banale e ci ha costretti ad avviare una riflessione prima visiva e poi culturale in senso ampio su di loro. Ha ridimensionato l’arroganza dell’Arte concependo un’estetica pronta a inglobare i desideri delle persone comuni, le loro case, i loro vestiti, le loro rughe, gli sguardi stanchi o felici, gli oggetti d’uso domestico. Ed anche i cappellini e i profumi, le proposte della moda, i luoghi delle vacanze reali e di quelle desiderabili. Così il fotografo, potenzialmente un chiunque, ha smesso i panni dell’alieno artista e si è messo in un umile ascolto della realtà. Ed è precisamente questo il motivo per il quale ispirazione e comunicazione hanno potuto stringere un rapporto più stretto e diretto. Perché gli ingredienti della fotografia sono più facilmente e vastamente percepibili come comuni e comunicabili. E perché ciò li ha resi spendibili all’interno di quei discorsi pubblici che chiamiamo informazione, documentazione, pubblicità… I quasi due secoli di storia che la fotografia ha alle spalle hanno prodotto anche modi non realistici o anti-realistici di mostrare brani di realtà. Perché l’imprescindibile referente reale che contraddistingue questa forma di scrittura è stato percepito talvolta come una condanna da trascendere e sublimare. Così il fotopittorialismo ha convissuto con il realismo verghiano. La dimensione onirica di Davide Lachapelle convive con i più duri reportage di guerra. Recentemente, ovvero da quando gli smartphone e i social hanno fatto il loro ingresso nel nostro quotidiano, la fotografia dei fotografi ha accusato il colpo. Ha reagito cercando forme di distinzione tra sé e il discorso social mediato dalle immagini che chiunque produce, attinge, condivide e ricondivide. Ha cercato un modo per ridefinirsi autoriale, dato che ciò che prima per lo più bastava, ovvero mostrare, informare e costituire una base per la conoscenza del mondo, dell’altro da sé, del lontano ancorché umanamente vicino, è un compito da tempo assolto dai giornali, dal cinema, dalla TV, e ora da Internet. La fotografia è cambiata, è maturata in simbiosi e in contrapposizione con l’Arte. E’ per una sorta di inconsapevole processo imitativo che l’Arte, dalla seconda metà degli anni Dieci del Novecento, ha affrontato la propria svolta verso il concettuale attraverso il ready made. Oggi, il complesso di inferiorità che gli smartphone hanno impresso alla fotografia le ha fatto fare un balzo verso il concettuale nel quale cerca di riguadagnare dignità artistica; quella dignità artistica di cui forse prima non le importava, consapevole com’era della potenza deflagrante delle proprie estrapolazioni. La fotografia contemporanea, certo non tutta, si è avvicinata molto al concettuale e alla serialità che, in alcune espressioni, rischiano però di negarne la specificità linguistica. Penso al lavoro del fotografo Raphael Dallaporta che risale al 2010. Dalle sue fotografie è nato un libro dal titolo “Domestic Slavery”. Si tratta di una ampia collezione di fotografie di case riprese frontalmente. Case umili, capanne, palazzi e grattacieli, villette a schiera e ville residenziali con parco e piscina. Sono tutte, come viene poi spiegato nel testo che accompagna le immagini, case in cui è stata perpetrata una qualche violenza ai danni di una donna. La loro eterogeneità dimostra la trasversalità del fenomeno. Ma le fotografie contengono soltanto facciate di case rinunciando a trattare il tema della violenza contro le donne in una chiave di autosufficienza, certo difficile da perseguire. Tutti i frame di lettura del lavoro sono esterni alle immagini e queste ne dipendono, facendoci perdere il confine tra l’Arte e la ricerca sociologica, la comunicazione, il saggio scientifico. Ecco, oggi l’Arte e la fotografia versano in questa crisi di identità che gli ottimisti definiscono interessanti ibridazioni e i pessimisti accolgono funereamente come la perdita di quella materialità percettiva che poteva sfociare nella sindrome di Stendhal. Personalmente, credo che anche i prelievi di realtà e le risemantizzazioni che l’Arte e la fotografia possono mettere in atto non dovrebbero dimenticare che l’Arte è un discorso emotivamente saturo, capace di produrre empatia e non soltanto conoscenza. L’Arte può integrare la conoscenza razionale, non sostituirla, portandoci lei sola ad una comprensione che integra ragione e sentimento. Quando non lo fa' è sicuramente prodotto culturale, magari interessantissimo. Ma Arte no.

Anna Fici
Fotografa. Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi per i Corsi di Laurea di Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo

Arte, fiamma eterna oltre il ricordo

Se vi dovessi chiedere la prima cosa che vi viene in mente quando dico Grecia sicuramente rispondereste "il Partenone", Omero, il teatro di Epidauro. Se vi dovessi chiedere la stessa cosa sull'Italia probabilmente rispondereste "Il Colosseo", Firenze, Michelangelo, la cappella Sistina. Se insistessi con la Francia quasi sicuramente direste il Louvre, la Gioconda, la Torre Eiffel. E per l'Egitto? le Piramidi, la tomba di Tutankhamen. San Pietroburgo? L'Ermitage. Anche se passano i secoli, i millenni, l'arte rimane, è la testimonianza tangibile di chi ci ha preceduto, fiamma eterna che passa di mano in mano finchè questo pianeta esisterà, poi sparirà anche il ricordo.
Ennio Nicotra
Direttore d'Orchestra. Ha collaborato con artisti stimati come Paul Badura-Skoda, Misha Maisky, Bruno Canino, Carlo Bergonzi. Tra il 1993-1995 ha insegnato come assistente di Musin durante i Masterclass di Siena all’Accademia Chigiana e, dopo la morte del suo mentore, alle rinomate Giornate Musicali estive di Assisi. È il fondatore della Ilya Musin Society (2001) dedicata alla promozione del sistema Musin nel mondo.

Ars  gratia  artis (L'arte per l'arte)

E’ una esigenza dell’uomo, l’Arte; una sua necessità spirituale costruttiva. Nel campo del disegno, soprattutto, lo è stata sempre; dai primordiali graffiti, alle configurazioni, le più involute, del giorno d’oggi. Se vogliamo tentare di definirla in maniera semplicistica ma tenendo ben conto del suo più recondito significato, della sua inveterata linfa, della sua vera essenza, essa è, o dovrebbe essere, l’esternazione sincera della dimensione dei propri sentimenti attraverso la proposizione di un’opera creativa, sia essa letteraria, pittorica, scultorea, compositiva, cinematografica, teatrale o quant’altro; che sia, comunque, rappresentativa dei tempi in cui viene creata. Le mode, i circoli, le correnti di pensiero, i movimenti culturali in cui gravita e da cui proviene rappresentano solo i presupposti imprescindibili che la determinano, la classificano e la connotano. Ma, in ogni campo considerato, è vero artista soltanto colui che riesce a palesare se stesso improntando la propria creazione del suo personale carisma e rifuggendo da qualsiasi intenzionale psicologico orpello. L’esibizionismo senza costrutto, sempre latente nell’animo del genere umano, è universalmente da condannare. Un commento su un artista di vaglia, ancorché laudativo, potrebbe benissimo essere licenziato in tre scarne parole, due virgole ed un punto: "Bene, bravo, bis". Ma io che amo la ridondanza del periodo, l’armonìa delle apposizioni, la molteplicità degli aggettivi e la loro conflittuale diversità, il profluvio dei concetti, l'alternanza dei vocaboli che, in ultima analisi, esprimono lo stesso significato, io che m'immergo in una involuta sintassi di puro stampo classicistico, seppure impropriamente e senza titolo o sostanza,  riterrei biasimevole liquidare il frutto della fatica d’un artista con le tre semplici parole e la punteggiatura sopra riportate; se non addirittura altamente lesivo, riduttivo ed ignobile per la esiguità delle espresse frasi, sia nei confronti dello Stesso che nei miei.  “Nolite iudicare, ut non iudicemini” (non giudicare, se non vuoi essere giudicato), secondo Luca e Matteo. E tutto ciò per significare, delineare e supportare il concetto di Arte pura, iperuranio scevro, cioè, da false pretese di comunicazione e da risibili compromessi con la sua vera essenza; in essa il contenuto e la forma rappresentano  le uniche chiavi per sceverarne il contenuto, per tradurlo in inappellabile aforisma che dia estrema contezza della sua intima verità. Valuto esclusivamente il concetto. A mio vedere, umilmente obliterando qualsiasi altro illuminato parere da accreditate fonti sancito, il leitmotiv dell’arte dovrebbe racchiudere in sé quella statura creativa, quella lungimirante forza innovativa, quel primordiale palpabile desiderio di schiettamente esternarsi, di comunicare, di appalesarsi, in qualsiasi modo od in qualsiasi momento lo si faccia, che solo il sentimento, l’emozione, il buon gusto o la coscienziosa consapevolezza dei tempi storici in cui si vive possono formulare. E’ realizzare qualcosa, formalizzandone un contenuto che in ultima analisi esprima l’animo dell’autore dando agli altri contezza di una individuale realtà interiore che possa indirizzare il comune pensiero ad un apprezzamento, ad un’intima positiva conoscenza che in qualche maniera sia capace d’innestare nel fruitore la possibilità di un paragone, di un giudizio, di un consenso o, nei casi emblematicamente contrari, d’un motivato rigetto. In tutti i tempi il concetto di arte è stato per lo più controverso, dibattuto, parafrasato, spesse volte distorto, stravolto. Non è per niente facile, infatti, contemperare un’intima personale esigenza, scaturita dalla particolarità del carattere, dalla sensibilità, dalla personalità propria dell’homo faber, dell’uomo artefice, dell’uomo che da semplice creatura razionale esplichi al meglio le proprie qualità intellettive nel fabbricare strumenti per adeguare e trasformare la realtà contingente secondo le proprie ineludibili esigenze e contrapporla ad una impellente necessità interiore ben più compulsiva, in quanto proveniente dallo spirito, che sia capace di far sognare ad occhi aperti, di far immaginare realtà inusitate dando libero sfogo alla fantasìa, che sia atta, insomma, ad indurre ed a concretizzare in un pensiero, reso tattile dalla fattura dell’opera, quelle aspirazioni, le più segrete, che lo animano, che lo sorreggono e che lo fanno vivere.  Mi sembra encomiabile il naturale umano bisogno di esprimersi, al di là della materialità dell’esistenza, perseguendo un profondo ben preciso disegno rispondente ad una primordiale esigenza di vita che, staccandosi da una realtà spesso opprimente, sicuramente  non rispondente alle proprie innate potenzialità sentimentali, conducesse  ad un auspicabile cosmico respiro atto ad amalgamare il particolare all’universale, l’unicità alla molteplicità, la materia allo spirito. Recondito apprezzabile fine che sollecita l’essere alle più alte imprese al fine di condurre le proprie riconosciute carenze ad una agognata catarsi, alla sublimazione, alla perfezione, attraverso il processo dell’esternazione creativa. Ma sin qui mi sono limitato a parlare di concetti, di teoria, di massime. Il nostro è stato un paese che si è distinto nei secoli per una grande impronta artistica, per una fattività originale che rimane il nostro maggiore vanto culturale. Adesso, tuttavia, l’arte, proseguendo nella mutazione del tempo, ha cambiato nelle sue varie configurazioni la propria struttura scoprendo nuove tecniche, nuovi tracciati, nuove formule, nuovi stili: nella pittura e nella scultura l’evolversi dell’informale, dell’astrattismo, del cubismo, dell’irrazionale, ha rivoluzionato sia le tematiche che la fattura del soggetto rendendo la condivisione da parte dei conservatori criticamente incerta e difficile. Il che non vuol significare affatto un imbarbarimento della disciplina trattata od un decadimento del senso artistico o del gusto, bensì una spiccata tendenza alla ricerca di qualcosa di diverso che innovi un settore in cui la tradizione è stata mantenuta integra e costante. Ci si chiede, tuttavia: come mai il moderno non annoveri tra le sue fila un Michelangelo o un Leonardo  nella pittura, un Fidia od un Bernini nella scultura, un Verga, un Moravia, un Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia in letteratura, un Rossellini, un Visconti, un De Sica, un Bergman nel cinema e quant’altri di elevata statura in altre dimensioni artistiche? Nell’arte romantica primeggiano figure dello stampo di William Turner, di John Constable di Eugéne Delacroix, nel realismo Gustave Coubert, Camille Corot, tra i macchiaioli Giovanni Fattori, Silvestro Legam, Telemaco Signorini, Vincenzo Cabianca, nell’impressionismo nomi come Edgard Degas, Edouard Manet, Camille Pissarro colmano la scena e nel simbolismo James Ensor, Gustave Moreau, Odilon Redon ed altri, tanto per citarne i più rappresentativi. Nel campo cinematografico, soprattutto italiano, tengono banco i nuovi talenti tra attori, registi e amministratori: Alessandro Gassmann, Matilda De Angelis, Pierfrancesco Favino, Ferzan Ozpetek, Paola Cortellesi, Elio Germano, Gianpaolo Letta, Fulvio e Federica Lucisano, Sorrentino, Bellocchio, Servillo, tanto per nominarne alcuni. Il progresso tecnico, scientifico, gli eventi che hanno caratterizzato e che caratterizzano la nostra epoca han fatto sì che la nuova società abbia indirizzato il proprio gusto, il proprio interesse e le proprie preferenze verso forme d’arte apparentemente meno impegnative ma più singolari e distrattive, capaci, cioè, di allontanare la mente dai gravosi problemi che in tutti i campi ci assillano, indirizzandola ad una diversità concettuale più appariscente e dinamica, ma forse meno incisiva.
  Giuseppe Maggiore
Saggista e Regista cinematografico